02/12/11

1. Fleet Foxes. Helplessness Blues. Sub Pop.



Difficile ripetersi, dopo un inizio così. Si era gridato da più parti al miracolo, nel 2008, quando dal nulla o quasi sbucarono i Fleet Foxes, cinque ventenni di Seattle che parevano presi di peso dal 1971 e dalle collezioni di vecchi vinili dei loro genitori: barbe, capelli, camicie a quadri, chitarre acustiche e armonie vocali degne dei più celebrati protagonisti del suono west coast. Si era gridato al miracolo a torto, oggi possiamo dirlo, perché la bellezza di quel primo ep (Sun Giant) e di quel primo album omonimo sono poca cosa – in senso del tutto relativo, sia chiaro – di fronte a quello che è venuto in seguito. Il vero miracolo Robin Pecknold e soci lo hanno fatto quest'anno, infatti, riuscendo non solo a confermarsi ma a migliorarsi, nonostante pressioni enormi, soglie di attenzione ai minimi da parte del pubblico e secondi album letali per la maggior parte dei loro colleghi. E davvero miracoloso suona Helplessness Blues, che parte dal suono già inconfondibile del gruppo e lo rende più denso, maturo e stratificato, ma egualmente magico, e prefigura diversi possibili sviluppi futuri. Da lì comincia la nostra chiacchierata con Pecknold stesso, in attesa di vedere il gruppo dal vivo in Italia a novembre (il 17 a Roma, il 19 a Bologna e il 20 a Milano).

Al primo ascolto, Helplessness Blues sembra solo un nuovo disco dei Fleet Foxes. Col tempo però si rivela molto più intenso ed elaborato del vostro primo album, pur restando inconfondibilmente vostro...
È esattamente quello che volevamo. L'album non è stato scritto da una band tutta diversa in uno stile tutto diverso, anche se sarebbe interessante provarci. Sapevamo sarebbe stato una continuazione del discorso iniziato con il primo disco, ma con più carattere. Abbiamo speso più tempo sulle canzoni, ci abbiamo lavorato così a lungo che siamo arrivati a conoscere intimamente ogni loro parte, anche se alla fine della registrazione avremmo comunque ritoccato molte cose. Ma fare qualcosa di più ricco era decisamente il nostro scopo.

Come mai il lavoro è stato così lungo e faticoso?
Per tre ragioni soprattutto. Volevamo più tempo libero, dopo essere stati quasi costantemente in tour per un paio di anni; tempo per stare più speso a casa a suonare e scrivere. Inoltre, avevamo dubbi su alcune canzoni e alcuni arrangiamenti. Infine, ci sono stati un po' di problemi tecnici e sfighe. Circostanze e sfighe: senza una delle due cose l'album sarebbe uscito prima.

Ne aggiungerei una quarta: sembra davvero che ci sia stato un maggiore lavoro sulle singole canzoni.
Per il primo album avevamo una dozzina di canzoni, nove le abbiamo scartate e sostituite con altre più nuove. Per Helplessness Blues, invece, abbiamo più o meno tenuto sempre quelle, e invece di scartarle e scriverne di nuove abbiamo lavorato costantemente su quelle, rifacendo gli arrangiamenti a tutte.

È vero che ti sei ispirato a Stormcock di Roy Harper?
Sì. Lui, John Fahey e Robbie Basho sono fra i miei chitarristi preferiti. Mi piace molto suonare la chitarra a dodici corde e scrivere in quel modo. Stormcock in particolare ha canzoni in cui l'arrangiamento sembra molto semplice per sei minuti buoni, e poi tutto si trasforma totalmente. C'è qualcosa di molto ragionato nella lunghezza delle canzoni, nel quando e nel perché le cose succedono. Tutto suona studiato e insieme molto casuale, mi è sempre piaciuta questa combinazione.

Veniamo ai concerti. Sul palco ora siete in sei, avendo aggiunto il polistrumentista Morgan Henderson, ex bassista hardcore punk con i Blood Brothers.
Non stavamo cercando un sesto membro, se non fosse stato lui non avremmo preso nessuno. Siamo diventati amici mentre stavo scrivendo l'album, ci vedevamo spesso e mi dava un sacco di consigli, era sempre in giro e ha finito per lavorare al disco con noi, è stato molto naturale. Essere in sei sul palco rende tutto più facile, il concerto scorre meglio, siamo in grado di legare meglio le canzoni e di gestire meglio le pause, con così tante mani possiamo fare andare sempre avanti la musica. Morgan ha aggiunto molto alla nostra musica, non riesco a immaginare di tornare in cinque, adesso. Penso che la nostra musica sarà diversa anche grazie a questo.

Quale canzone del nuovo disco pensi rappresenti meglio le possibili direzioni future?
The Shrine/An Argument, con le sue quattro sezioni abbastanza distinte in otto minuti. Mi piace, mi immagino un disco di una sola canzone lunga 25 o 30 minuti in quello stile, con un sacco di cose diverse che succedono messe una dietro l'altra, sarebbe bello.

Nelle nuove canzoni ci sono anche diverse parti che lasciano spazio a un suono più rumoroso e pieno, soprattutto dal vivo... diventerete più elettrici?
Non ne sono sicuro. Sto lavorando a nuove canzoni in cui sostanzialmente urlo e c'è molta distorsione, ma non so, può essere difficile. Mi piace fare dischi avventurosi, che non mantengano lo stesso umore per tutto il tempo. In futuro penso ci sarà spazio per cose molto tranquille a altre più rumorose.

In concerto mi ha colpito la vostra capacità di tenere la gente silenziosa e attenta, nonostante la clama della vostra musica. È difficile?
Nel tour del primo album abbiamo fatto lo stesso set ogni sera, per quasi due anni: cominciavamo con una canzone a cappella, per presentare il concerto nel modo che volevamo. Chiedevamo la maggiore attenzione proprio all'inizio, e avrebbe funzionato solo se la gente avesse prestato attenzione. E funzionava, la gente era molto tranquilla più o meno ovunque, e stava zitta per tutta la canzone. Il silenzio si notava.
(Il Giornale della Musica n. 287)

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