23/07/02

Biglietto da dieci euro.
Davanti: “FORZA ITALIA / W I PADRONI / COMUNISTI IPOCRITI E FALSI”.
Dietro: “MAROCCHINI MERDE”. E più in basso, con un'altra scrittura: “questi soldi sono di EMINEM”.
Che faccio, lo conservo?

61. David Axelrod “David Axelrod” 2001. (cd nuovo, Mo’Wax, € 10.33).
Ci sono dischi, e sono la maggior parte, ai quali cambieresti quella cosa o quell’altra, anche piccola, anche insignificante. Ce ne sono altri ai quali non cambieresti niente di niente, e “David Axelrod” è uno di questi.
Non necessariamente la suddivisione coincide con quella tra i dischi che non ti piacciono, o ti piacciono con riserva, e quelli che invece adori. È proprio un’altra cosa. Posso adorare un disco e nello stesso tempo pensare che sarebbe venuto meglio cambiando quella determinata cosa, così come il fatto che non cambierei niente non rende automaticamente il disco uno dei miei preferiti.
Questo per dire che “David Axelrod”, pur bellissimo, non diventerà forse uno dei miei dischi preferiti in assoluto, ma è praticamente Perfetto.
Nasce nel 1933 a South Central Los Angeles. È autore, arrangiatore, produttore e musicista pressochè autodidatta, e collabora proficuamente con nomi del calibro di Lou Rawls, Cannonball Adderley ed Electric Prunes. Eclettico, vero? Eclettico, sì, perché David Axelrod è un Compositore, equamente influenzato dal rock e dalla psichedelia come dai suoni black della sua città.
Questo disco omonimo, però, è affare vecchio. Il suo manager trova un acetato vecchio di 30 anni e più, James Lavelle lo ascolta e ne rimane comprensibilmente folgorato, e incalzato da DJ Shadow (fan accanito del Nostro) battezza il grande ritorno con il marchio Mo’Wax. Le ritmiche originali restano, sollevate nude e crude da quello stesso acetato, gli archi e i fiati vengono aggiunti, e due brani vengono realizzati nuovi di zecca. Sono gli unici cantati, l’iniziale “The Little Children” e la finale “Loved Boy”. La prima ha un andamento etereo di archi e contrabbasso, un coro lirico e il rapping improvviso e slegato dal beat (per forza, non c’è!) di Ras Kass, ovvero South Central quaranta anni dopo. Detta così sa di vaccata, ascoltata è prodigiosa. La seconda è uno straziante tributo al figlio prematuramente scomparso, elevata dal vecchio allievo Lou Rawls a livelli da pelle d’oca.
Ma non sottovalutiamo i sette strumentali, la spina dorsale del disco. Semplicemente, è Musica della miglior specie. E non dimostra nessuno dei suoi 34 anni. Fonde il soul e la psichedelia in qualcosa che è anni luce oltre la somma delle sua parti. Crea suggestioni a ripetizione, forte di una creatività e di un gusto straripanti. Un momento siete al volante di una Ford pedinando un sospetto sull’Hollywood Boulevard, il momento dopo siete nella camera da letto della vostra casa di Santa Monica in piacevole compagnia.
Ha ben ragione allora DJ Shadow nelle note dello splendido booklet (e che dire della confezione allora?): questo signore è l’essenza di Los Angeles.

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